Una vita a foglietti

Un giorno a scuola

Questo è un diario in diretta, scritto d’impatto, come se stessi scattando una fotografia. Diversi soggetti, diverse angolazioni. Che come sempre non dicono lo stesso per tutti, ma dicono molto di tanti.

Ore 10,00 circa

  • Anche quest’anno non compro niente.

Una frase, un pensiero che, detto in un istituto, da un’alunna del quarto anno di un liceo classico, davanti ad un banco di libri, con senso di soddisfazione, mi lascia un brivido di stupore.

Poi quella bocca che ha pronunciato una così profonda frase, alza gli occhi che completano il suo ritratto, mi guarda, mi classifica come corpo estraneo e mi ride in faccia.

Deve ritenere la sua affermazione – battuta molto divertente visto che la ripete all’amica che a sua volta ricambia la risatina complice. Io guardo il libro davanti a me, quello che ho appena finito di leggere, che mi racconta della storia di un Venezuela a pezzi, forse solo una storia inventata in questo libro, ma che deve somigliare ad orrori che qualcuno forse sta davvero vivendo.

E penso che io sono qui, in Italia, e un semplice oggetto, un libro appunto, che io ho scelto, mi ha aperto una finestra su un mondo che ho conosciuto circa 20 anni fa. Una società che cominciava a mostrare le prime pecche, le prime assurdità che oggi hanno portato alla dittatura e agli orrori di cui nessuno parla in maniera chiara.

Un libro e sono stata costretta a fare riflessioni, a valutare il peso dell’arroganza che nasce dalla voglia di potere supportata dalla scelta di violenza, perché la forza concede più della mente. In certi casi. Quella stessa mente che voi ragazzi state decidendo, o permettendo ad altri di decidere per voi, di tenere spenta. Una mente a cui non concedete spunti di vita, pareri personali, che appiattite dentro ciò che oggi altri vi propinano per far sì che siate abituati al potere. A subirlo.

È la mente che si riflette in un sorriso beffardo, di chi si vanta di aver trascorso un altro anno senza aver letto, senza aver mai concesso a nessuna porta di quella sua mente, di aprirsi su un panorama scelto e non imposto!

Sai, tra me e te, non so davvero chi potrebbe ridere.

Tu no di certo, ma neanche io.

Non rido della tua chiusura, non rido della tua prigionia. Se ti insegnano a stare dietro le sbarre, domani non saprai fare altro che continuare a costruirne anche tu per altri.

Ore 11,00

Vado a consegnare un libro. In questi giorni è la prima volta che salgo “ai piani alti”. Ogni gradino mi aggiunge un peso. Di oscurità, di trascuratezza, di vite lasciate scritte sopra i muri, come un modo per prendersi un posto che poi non sappiamo se la società ci riconoscerà fuori di qui.

Al primo piano sensazione di carcere: lunghi corridoi, balconate, cattedre lasciate ai vecchi “bidelli” ora operatori scolastici. Trattengo quasi il respiro, mi sembra che i miei passi, anche se con scarpe da ginnastica, possano interferire con un ordine apparente che traballa già di suo. Al secondo piano le cattedre esterne sono anche occupate: da piedi. I piedi di uno che si è messo comodo, che sembra stia in una posizione abitudinaria, ma che riconosce sbagliata perché appena spunto io, scattano a terra. Chiedo informazioni più per giustificare la mia intrusione che per necessità. L’aria che non si respira fa pensare ad un “modus operandi” che non ammette cambiamenti.

Mi indicano un angolo. Mi avvicino e gli occhi decidono di voler guardare. E vedo: porte tutte sfondate. Ad ognuna manca un pezzo nella parte bassa, come se fossero state, in una vita passata, quelle che permettevano l’accesso al cane o al gatto. Ma qui vengono persone, non animali.

Busso ad una porta ricoperta da scotch e che immediatamente mi fa pensare ad uno spazio sporco e abbandonato.

Mi lasciano entrare e, oltre alla prof alla cattedra, vedo poco dei ragazzi nei banchi.

Faccio la mia consegna e richiudo la porta. Rifare la strada al contrario mi impone uno sguardo più attento. Ovunque quello che vedo sa di sciatteria, di squallore, di abbandono, di precarietà, di brutto, di disaffezione. Voi vivreste, trascorrereste con gioia ore della vostra giornata in un posto così? Che vi fa pensare che è sporco, maltrattato, che non ha dignità e non ne merita, che fa abbassare lo sguardo, che non regala colori oltre il grigio e il marrone? È una scuola Santo Iddio. Ed è uno schifo. Non c’è luce, non c’è bellezza. Non traspare nulla da queste mura che non abbia sapore di sconfitta e non mi piace.

Mi passano davanti firme di stilisti, marche di scarpe alla moda, l’aria è piena di parole e di corpi che si ritrovano al distributore automatico, dove automaticamente buttano giù ore e pezzi del loro quotidiano crescere.

C’è tanto rumore e non riconoscono quello della vita. Li guardo. Potrebbero essere i miei figli ma non lo sono. I miei figli non mi ridono in faccia quando siamo di fronte ad un libro; i miei figli non aspettano di sentire le opinioni degli altri prima di esprimere le loro.

Non lo so cosa c’è nel particolare di queste masse. Non so quale mente sopporta di frequentare ambienti così ostili agli occhi; forse riceveranno sorrisi che illuminano queste aule piene solo di sedie e banchi. Lo spero. Un sorriso può fare davvero tanto e mi auguro che ognuno di questi ragazzi lo riceva come dono quotidiano. Ma uno di quei sorrisi che vengono dall’anima, non quelli di scherno per chi ha un libro in mano.

Ore 12,00

  • Se si tratta di saltare la scuola, allora sì!

Un’altra frase – risposta alla domanda posta a chi aveva appena ascoltato, o avrebbe dovuto farlo, la proposta di partecipare all’incontro con l’autore. Di un libro che parla di scuola, della loro scuola, dei loro professori, che ha provato a ridare un minimo di importanza e di dignità ad una popolazione di studenti con tanti doveri ma anche tanti diritti che non sempre vengono rispettati. Ma cosa sanno questi ragazzi dei loro DIRITTI? Sanno che è una parola che viaggia con l’altra, DOVERI, e che impone conoscenza e rispetto di se stessi?

La scuola come perdita di tempo; progetti parole informazioni che non sanno dove devono essere sistemate. Un apparente colabrodo che raccoglie e perde con la stessa velocità. E ne sembrano fieri.

Sprecate il vostro tempo e le vostre opportunità e quando vi accorgerete del vuoto che avrete creato in questi anni, spero per voi che non sia troppo tardi.

Ore 12,25

Pensavo di aver finito, ma è solo il mio solito ottimismo a farmelo credere. Una IV di un liceo, dopo aver, non uso il termine ascoltato perché non è adatto, ma fatto parlare una persona che spiegava un progetto, aderiscono per un numero minimo di copie (stessa classe che ha dato il la al paragrafo precedente). Noi facciamo tutta la trafila della registrazione, consegniamo le 12 copie e andiamo avanti.

Pochi minuti e due rappresentanti della suddetta classe riporta 5 libri “perché non li vogliono”. Sono stupita e dentro di me ancora mi chiedo perché  in tanti continuano ad avere questi comportamenti; faccio le dovute cancellazioni ma, mentre sto per rimettere a posto l’elenco compaiono altri due ragazzi con in mano altri 4 libri!!! Chiedo sbigottita se davvero sono tutti della stessa classe, perché con lo stesso ottimismo di prima spero di sbagliarmi. Ma è così. E mentre ho ancora gli occhi spalancati e tento di frenare la rabbia che mi sale dalla pancia con un ascensore ultrarapido, si aggiunge un altro loro compagno con ancora un libro in mano. Prendo le copie, pretendo che mi restituiscano anche le altre due superstiti, prima che scendano da sole e mi permetto di sottolineare a questi quasi maggiorenni, che non hanno il minimo senso del rispetto! Per loro, per quelle orecchie otturate di presunzione che gli fa creder di sapere tutto e di capire tutto senza ascoltare e poi per noi, che qui stiamo per offrire a ognuno di loro un’opportunità per una nuova esperienza.

E ripenso a questi fogli appena scritti, all’attenzione che avevo messo nel pensarli obbligati ad un ambiente grigio e pesante e già vecchio. Ma vedo che i risultati sono già sbocciati. Sono giovani ma sono già anziani, sono sani ma sono già malati. Della malattia dell’indifferenza, della strafottenza, dell’arroganza che conduce al nulla.

Sono certa che se questa mattinata l’avessi affrontata con una video camera piuttosto che con un quaderno e una penna, le cose non sarebbero andate in questo modo.

Una videocamera, le riprese, sanno di cose famose. Puoi finire su Youtube, puoi sperare che qualcuno guardi il tuo viso, il tuo fisico. Peccato quasi che non l’hai saputo prima, puoi pensare, che avresti calcato il trucco sugli occhi e messo qualcosa di più adatto a far risaltare le tue forme. Invece una penna, dei fogli di carta, non fanno immaginare proprio niente. Che cosa mai possono fare, a cosa potrebbero servire questi scarabocchi?

E invece questi scarabocchi sono le foto delle vostre azioni, sono la registrazione delle vostre affermazioni. Sono il racconto di quello che fate veramente senza la maschera che si indossa quando bisogna pronunciare frasi ad effetto di cui ignoriamo il significato.

Diapositive. Realtà catturate. Ritratti di ragazzi e di docenti che li accompagnano. Del loro interesse o del loro lasciar perdere, della ricerca del bene finale o della difesa di piccoli interessi di fazioni. Forse alcuni di questi insegnanti hanno vissuto una giovinezza come la vostra, senza spina dorsale, senza responsabilità, senza sogni. E da lì, si arriva solo così.

Ore 13,00

Pensavo di aver scritto la parola fine alla giornata ma mi sbagliavo e chiudiamo in bellezza. Ultimi esemplari del mattino. Una classe accompagnata da un’insegnante che afferma “non li conosco, che ne so se possono leggere”. Apro parentesi di un episodio di due giorni fa. Una sua collega affermava, il 30 settembre, a due settimane circa dall’inizio della scuola, che la prima classe che stava accompagnando e che dunque aveva conosciuto solo da brevissimo tempo, era già schedata come pessima, con indicazioni di qualche potenziale bocciato, con critiche per qualcuno che aveva scambiato un liceo per un professionale. Stessi tempi e diversa capacità di valutazione.

Questa di cui parlo ora, non sapeva del progetto delle autorizzazioni e queste piccole informazioni va a recuperarle mentre qualcuno sta già spiegando di cosa si tratta ad una classe che purtroppo le somiglia già tanto: non ascoltano. Ridono, si spingono, parlano tra di loro di qualcosa che di sicuro deve essere più importante della trama di un libro, con comportamenti che li porteranno, alla domanda finale – Volete leggerlo? –  a rispondere sì, nel migliore dei modi, senza sapere a cosa stanno aderendo. Salvo poi andare in classe, scoprirsi genitori di un libro figlio che non vogliono e che faranno abortire con una rapida discesa agli inferi.

Li ho guardati, ho provato pena e tanta rabbia insieme. Ho immaginato di metterli in fila al muro e costringerli a nutrirsi solo di pagine di libri, non da mangiare ma da leggere. Per fargli capire chi è il nemico nascosto dietro le copertine colorate, per fargli capire se davvero sanno a chi stanno facendo la guerra.

Quando gli riempiranno la bocca con gli slogan contro il politico potenziale fascista, si ricordassero che il timore che qualcuno gli tolga la libertà, per loro è già cosa reale. Questa scuola che dovrebbe aiutarli ad essere liberi, coscienti e consapevoli, li sta chiudendo dentro celle di cui loro stessi hanno le chiavi. Si ingabbiano da soli e dentro la prigione del pensiero, è difficilissimo trovare vie d’uscita.

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