Una vita a foglietti

La notte dei miracoli

Se sei a Bologna e vivi una notte così, in che altro modo potresti titolare questi pensieri?

Sto per iniziare il viaggio di ritorno dal mio primo Live con Italo; ragionevolmente, conoscendomi, avrei potuto raccontare ciò che ho visto in questi giorni, ne avevo l’intenzione prima della partenza, ma le esperienze vanno vissute e solo dopo ne raccoglierai il frutto.

Allora il mio racconto nasce dalla fine, da quella lunga attesa alla stazione dei pullman fino all’1,55 cominciata già dalle 21,30. Oltre quattro ore da sola.

Una piccola sala d’attesa affollatissima di persone in attesa del proprio viaggio, e bagagli, stanchezza, odori di ogni tipo.

Dopo diverse ore riesco a sedermi, stanca ormai. Guardo chi si è tolto le scarpe, chi non ha neanche i calzini, chi russa a causa della scomoda posizione. Chi ascolta ad alto volume musiche e messaggi in una lingua a me sconosciuta, chi ascolta solo il proprio silenzio.

E fuori ragazzi che usano il pavimento, altri sistemano dei cartoni e ne fanno letti improvvisati.

Io guardo, ma non ho pensieri per loro, ho sensazioni che mi accompagnano.

Mi soffermo su questo mio viaggio e di come sia stato particolare in un modo che non mi aspettavo.

Giornate bellissime e passaggi che si sono fissati come se fossero proprio quelli che cercavo, quelli che mi servivano, ma ancora non sapevo come.

Vivi nella verità.

E passano le ore e si abbassano le temperature e le lancette segnano le 1,50.

Mi avvicino con il mio bagaglio, la mia stanchezza e i miei vestiti che hanno preso l’odore dei miei compagni di stanza. Sembra che abbia partecipato ad una seduta di canne davanti al fuoco, ma non fumo e manca pure il fuoco.

Mostro il biglietto con il solo desiderio di sedermi e cominciare ad azzerare la distanza da casa, ma un oggetto legge il mio Qr code e una voce mi dice “NO” e mi liquida.

Mi si ferma il cuore, lo guardo stranita e lui, alquanto infastidito dalla mia sorpresa, mi fa notare che ho prenotato il biglietto per il giorno 5, ma alle 1,55 siamo già al giorno 6 di novembre.

La mia frase è stata “Non potete lasciarmi qui”, ma il signore non ha nessuna intenzione di preoccuparsi delle mie mani che tremano e della solitudine che già mi si è avvicinata e mi ha presa sottobraccio.

Provo a comprare un altro biglietto ma non sono attrezzati a farmi pagare con carta e i 7 euro che mi mancano per il contante non lo convincono nonostante la garanzia degli altri 70.

L’autista è persona ligia al dovere, chiude le porte, mette in moto e mi lascia lì.

Vorrei lasciare qualche rigo sospeso, non per il tempo che ho impiegato a decidere di andare alla stazione in cerca di un’alternativa, quello è successo in fretta, ma piuttosto per quel vuoto alla pancia che mi ha presa quando ho realizzato che avevo da poco immaginato che fosse andato tutto come previsto e ora c’era il nulla.

Devo per forza richiamare Felice e nella sua voce rimbalza l’impotenza di una situazione che non può condividere con me e che lo rende spettatore.

Arrivo alla stazione, ritrovo la stessa atmosfera del viaggio di andata: desolazione, addetti alla pulizia, polizia, gente che dorme su giacigli improvvisati a altri seduti vicino alle macchine dei biglietti.

Faccio la mia ricerca e la soluzione più vicina è alle 6,27 del mattino.

Mi guardo intorno cercando di capire come riempire quel tempo e qui mi scontro con un sospetto già avuto, ma che era durato molto meno.

Nella civilissima stazione di Bologna, non ci sono servizi, non ci sono sale d’aspetto aperte, non ci sono prese, non ci sono sedute.

Eccomi qua.

L’odore da fumatrice di canne ancora lo tengo addosso, restare in piedi per altre 4 ore mi risulta difficile immaginarlo, il telefono quasi morto che mi toglierebbe anche la possibilità di parlare con Felice e un fastidio per questi servizi di un normalissima città civile, che mancano perché “i barboni ne approfittano” testimonianza di chi vive ogni giorno tutto questo. Ma nelle stazioni, a parte l’esigenza di chi vuole coprirsi durante la notte, arrivano i passeggeri, quelli che pagano profumati biglietti e qualcosa gli si potrebbe anche concedere.

Ecco, la Paola che si è lasciata cadere sul pavimento della stazione di Bologna, era più o meno questa.

Ma qui arrivano i soccorsi. No, non vi immaginate schiere di domestici con panche e cuscini e un tè caldo, i miei soccorsi sono i miei pensieri.

Impongo un po’ di silenzio a tutto quel rumore che mi gira nella testa e mi impegno a ricordare perché ero lì.

Ero lì perché avevo deciso di fare un’esperienza e perché ho fatto un errore.

Io ho creato quelle condizioni, quindi era qualcosa di giusto per me.

Bene, ma cosa?

Dalla mia nuova stanza da letto ho di fronte la maggior parte di quelle persone che si sono sistemate prima di me.

A quelli stabili si aggiunge una vecchia con tanto di trolley, sicuramente vuoto perché è così piccola e magra che non potrebbe trasportare neanche se stessa, con una gobbetta che le impone di guardare solo a terra mentre con la mano fruga nelle macchine dei ticket, alla ricerca di qualche moneta dimenticata.

Il primo pensiero è che forse sono qui per loro, per raccontarli ma, anche se l’ho sempre fatto, questa notte qui non mi sembra proprio quella giusta.

Prendo il mio quaderno, gli chiedo una compagnia che gentilmente mi offre, ma di cui mi servo a metà.

Dopo aver capito quanto può essere freddo e duro un marmo di Bologna, mi viene la prima saggia idea: potrei chiedere alla polizia di caricarmi almeno il telefono, è impossibile che loro non abbiano prese.

Mi alzo, già fredda come un ghiacciolo e mi avvio fiduciosa.

Chiedo un po’ di corrente e trovo accoglienza. Posso restare un po’ lì, all’ingresso, dove trovo una sorta di panchina di marmo su cui è stesa una coperta che non sfrutto: sembra avere il nome di qualcun altro e io mi accomodo in un angolo.

Quel gesto mi apre un po’ il cuore, ricordo quello che abbiamo fatto qualche ora prima e mi dico che ho gli strumenti per aiutarmi.

Chiudo gli occhi e basta un attimo per leggere una storia completamente diversa.

Viaggio indietro di qualche giorno, di quelli ancora prima di partire, di quelli in cui mi nascono dentro domande che pretendono risposte.

Quante volte l’essere umano ha ceduto a ricatti quando veniva messo in gioco il proprio corpo? Per evitare torture, sofferenze, ritorsioni sui propri cari. Noi, a difesa del nostro corpo, diamo meno valore all’integrità dell’anima.

Ci avevo pensato per molto tempo e il passo successivo era logicamente il non sapere. Non sono mai stata torturata, non ho dovuto cedere a ricatti del genere. Quindi?

Quindi ecco qui la risposta.

Io che mi interrogo su cose grandi, ho il potere di vivere anche le mie risposte.

Il biglietto sbagliato, l’autista intransigente, la stazione inaccogliente e IO.

IO, che se chiudo quel flusso di pensieri lì e rimetto i pezzi in una nuova disposizione, ho cambiato la realtà.

Apro gli occhi, sono ancora in quella stazione di polizia ma mi sembra di stare al Grand Hotel.

Il marmo non è più duro, il quaderno che ricompare tra le mani viene sommerso da riflessioni di una Gioia prorompente.

Vivi nella verità.

Quella frase, quell’esempio così vero che mi era stato offerto, quel bisogno di far coincidere ciò che pensi con ciò che fai, si materializza come su uno striscione pubblicitario.

Avevo quel dubbio, posso superare i limiti che mi impone il mio corpo se chiedo aiuto all’anima?

Sì, assolutamente sì.

Rivedo il volto dell’autista e lo ringrazio per quel messaggio di opportunità che mi ha consegnato. Guardo con infinita gratitudine questo giovane poliziotto che non può sapere cosa ha significato farmi entrare da quella porta e poi arriva lei.

La vecchia piccola e magra, perché quella è la sua stanza. Il nome che aleggia su quella coperta è il suo. Si siede e io mi alzo per farle spazio, per permetterle di stendersi, ma non è quello che vuole.

Mi invita a sedermi di nuovo e mi dice: “Ama il prossimo tuo come te stesso” e, “Non giudicare” mentre vuole sapere se conosco la Bibbia.

Io rido, rido col cuore con gli occhi, con ogni parte del mio corpo, ma soprattutto con la mia anima.

Sono passate le tre di notte. Guardo di nuovo quell’orologio a cui avevo chiesto come avrei impiegato il tempo che serviva per spostare le lancette fino alle 6 e gli dò una risposta: sarei stata in ascolto.

Quella vecchina mi coinvolge in una conversazione che non ha nessun senso logico, salta da date  a personaggi  a parentele a racconti di soprusi in quella stazione, di quanto amasse Gina Lollobrigida al cinema, più della Loren e alla fine esce quella frase: “io ho bisogno di parlare”, pronunciata giusto un attimo prima che il gentile poliziotto ci inviti ad uscire, perché in questa notte dei miracoli, qualcuno ha deciso di aggredire qualcun altro, la pattuglia è uscita con i mitra e il tutto si stava chiudendo con un arresto al quale non potevamo essere presenti noi due, strane frequentatrici di un ufficio di polizia.

Li lascio, più in fretta che posso perché tra le due quella meno opportuna sono io, non senza aver rivolto un profondo grazie.

Ricomincia il mio vagare nella stazione di Bologna, città che non conosco, che non so se rivedrò, ma alla quale ho legato un pezzo delle mie rivelazioni che resteranno fissate in quel tempo tra le lancette che sono passate, poi molto più velocemente, dalle 3 alle 5.

Io creo la mia realtà. Io decido come vedere ciò che mi circonda, ma Io ho soprattutto la responsabilità di essere ciò che dico, perché quello che dico, quello che nel profondo voglio scoprire, poi mi offre la soluzione. Soluzione che però posso vedere solo se mi metto in ascolto del mio silenzio piuttosto che del mio rumore.

La mia notte dei miracoli non è finita lì.

È durata ancora nel viaggio fino a casa, con gli odori che mi sono portata dietro anche se non erano i miei, ma che mi fanno ricordare ancora una volta, ancora in modo più profondo, che non è il caso di giudicare.

Non possiamo mai sapere dentro quei vestiti che non profumano di fresco bucato, di che storia si sta facendo esperienza.

Grazie.

2 thoughts on “La notte dei miracoli

  1. Teresa

    Che esperienza. Non conosco la stazione ferroviaria di Bologna, mai fatto sosta. Sei ancora una volta mistica, Paola. Questa tua capacità di chiedere aiuto all’anima, di fare introspezione, di farti delle domande, di cambiare il punto di vista sulla situazione stancante che si era verificata, è encomiabile e sai bene che non è da tutti. Spero il rientro sia stato all’altezza della tua profondità d’animo.

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